giovedì 11 marzo 2021

lunedì 1 agosto 2016

Le Volte di Mangiante, nell'ambito del Festival Paganiniano di Carro (30 luglio 2016)

Alcune immagini della mostra personale di Dionisio di Francescantonio ospitata negli splendidi spazi delle Volte di Mangiante di Carro, dove Paolo Mangiante, nell'estate di ogni anno, organizza alcuni eventi culturali.

Le Volte di Mangiante a Carro (La Spezia)
Paolo Mangiante tra i musicisti ed alcune autorità 
Paolo Mangiante tra i suoi ospiti 
Paolo Mangiante illustra la mostra ai suoi ospiti




Le Volte di Mangiante, nell'ambito del Festival Paganiniano di Carro (30 luglio 2016)

Alcune immagini della mostra personale di Dionisio di Francescantonio ospitata negli splendidi spazi delle Volte di Mangiante di Carro, dove Paolo Mangiante, nell'estate di ogni anno, organizza alcuni eventi culturali.

Le Volte di Mangiante a Carro (La Spezia)
Paolo Mangiante tra i musicisti ed alcune autorità 

Paolo Mangiante illustra la mostra ai suoi ospiti



venerdì 7 settembre 2012

L’IMPOSTURA DELLA POP ART (segue)

Con ogni probabilità la definizione pop art fu coniata in Inghilterra, alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, da Lawrence Alloway, un critico d’arte autore di molte recensioni che, più tardi, troviamo a New York fortemente impegnato nel lanciare giovani “artisti” pop. Già il pur facile accostamento dell’arte all’aggettivo popolare (pop infatti allude in qualche modo al vocabolo popolare) dovrebbe indurci a qualche utile riflessione. Potrebbe trattarsi dell’espressione di soggetti rozzi e privi di ingegno appartenenti alle classi meno abbienti, oppure dell’arte prediletta dal popolo. Ma, in questo caso, non si capirebbe come mai proprio il popolo per lungo tempo fu la classe sociale più ostile e diffidente verso l’esposizione in spazi imponenti e spesso prestigiosi di bidoni di spazzatura firmati, tubi serpentinati al neon e immagini seriali di nessun significato. In realtà si tratta della presunta arte che un piccolo numero di personaggi facenti capo ad una potente setta capace di condizionare il pensiero e quindi il comportamento umano in tutti i campi ha destinato al popolo. A tutto il popolo. Infatti, ancor più degli equivoci ascrivibili all’informale, all’astratto e al concettuale, i bidoni di spazzatura, i tubi al neon e le immagini seriali, ben lungi dall’esprimere, come pretenderebbero schiere di entusiastici recensori, una “critica alla società dei consumi”, hanno l’unico scopo di confondere e deprimere la percezione estetica collettiva e fanno parte della stessa tecnica usata in tutti gli altri settori da chi tende ad acquisire il potere demolendo i fondamenti della nostra società, e trasformando le popolazioni in masse di bruti facilmente manipolabili. Un percorso all’indietro che, per l’appunto, diventa possibile solo nel momento in cui viene meno l’ordine che discende dall’esistenza delle categorie del bene e del male, del bello e del brutto, del sano e del patologico a cui per secoli e secoli la nostra civiltà aveva sempre fatto riferimento. E, nel contempo, costituiscono il procedimento con cui i furbi e gli arroganti, ben inseriti nel sistema, misurano la loro capacità di catturare con ogni mezzo l’attenzione del prossimo o di provocarne una qualsiasi reazione, non importa se di disorientamento o di rifiuto, per ottenere, grazie all’alta visibilità conseguente, grossi introiti economici in cambio di poco o niente: le “opere” uniche vendute ai borghesi danarosi, inebetiti dai cataloghi che valorizzano il pattume con parole incomprensibili e a tutti gli altri, che si portano a casa la paccottiglia riprodotta in serie a medio o a basso prezzo, dalla quale, grazie alla facilità di riproduzione in grandi quantità che consente la tecnica moderna, si possono ugualmente ricavare cifre stratosferiche.
Insensato, come ho già detto, sarebbe dedicare altro tempo prezioso alla memorizzazione e all’analisi della miriade di nomi e di “opere” di tanti pretesi artisti del pop. Per il nostro scopo, che resta quello di porre fine a una delle tante imposture e quindi propiziare l’avvento di una nuova stagione, basterà la divulgazione della biografia di Andy Warhol, quella vera, non inventata da biografi falsi o prezzolati. In questa sede possiamo solo mettere in evidenza il collegamento che esiste tra l’irrompere sulla scena di questo modesto grafico pubblicitario, bilioso e paranoico, e il nichilismo pratico oggi dilagante in cui hanno finito per sciogliersi tutte le ideologie del Novecento. Potendo disporre, finalmente, di adeguati strumenti di analisi, risulterà evidente a chiunque come l’ascesa del figlio di emigranti slovacchi a cui continuano a rifarsi le torme di imbrattatori che ancora ci tormentano con i loro ignobili scarabocchi, non fu dovuta né a un inesistente talento ribelle né alla forza di volontà di una madre frustata e ambiziosa, ma all’occhio acuto di chi già negli anni Cinquanta cercava il matto giusto per promuovere la pazzia collettiva e l’uso generalizzato della droga, consapevole di quanto sia facile esercitare tutto il potere su un popolo debole di mente e incapace di scegliere, e sul quale si può riversare qualunque porcheria. Ed è proprio alla necessità di perpetuare questo genere di potere totale e perverso che va ricondotta una circostanza che dovrebbe invece far riflettere: all’immediata e praticamente universale riconoscibilità del sembiante di Andy Warhol e di molte delle “opere” a lui attribuite, corrisponde, come più sopra è stato detto, una conoscenza assai approssimativa per non dire assolutamente vaga di quella che fu in realtà la sua vita, proprio come se qualcuno avesse provveduto a far silenziare i non pochi testimoni oculari delle innumerevoli ignominie ascrivibili al più falso e ingannevole dei miti. Per esempio chi, tra i tanti cultori del bislacco personaggio, si è preso la briga di raccontarci quanto avveniva sotto la sua esclusiva regia nella mitica Factory da lui fondata? Arrampicatore sociale, abile come pochi, Andy era riuscito in giovane età a emergere dall’anonimato diventando l’amante di Truman Capote, il più famoso scrittore omosessuale statunitense dei primi anni Cinquanta: una formula abbastanza scontata per raggiungere la notorietà passando dalla porta di servizio che egli, pubblicitario per formazione, una volta diventato famoso, decise di vendere alle torme di giovani che sgomitavano per godere dei benefici che immaginavano di poter ottenere entrando nella sua orbita. Egli, infatti, prometteva a tutti “un quarto d’ora di celebrità” in cambio di un pegno che si riservava di esigere e che quasi sempre consisteva nello sfruttamento del loro corpo o del loro talento. Ma siccome l’avidità e la mancanza di scrupoli, in definitiva, non erano i peggiori elementi della sua natura assolutamente crudele e negativa, spesso il prezzo per non uscire dal cerchio di luce che egli era in grado di accordare saliva a dismisura e molti dei giovani irretiti dalla sua algida personalità e ancor più dalle droghe che nella Factory non mancavano mai, finivano per perdere la salute fisica assieme a quella mentale e, non di rado, anche la loro stessa vita. Mentre lui, cinico e perfettamente lucido (in quanto non personalmente dedito alla droga) era sempre lì, con in mano l’immancabile cinepresa, per filmarne l’abbrutimento derivante dalla decadenza fisica, le indicibili umiliazioni e perfino il momento estremo del trapasso che a volte avveniva a seguito di sfinimento fisico per assunzione di droghe e altro genere di veleni o per via del suicidio, a cui egli stesso aveva indotto il disgraziato di turno. Perchè la morte e il dolore degli altri lo affascinavano, quietavano, almeno per un po’, la sua invidia congenita in quanto lo risarcivano di quell’aspetto cimiteriale che la natura gli aveva dato e che risultava a lui stesso sgradevole.
Cominciare a far luce su tante realtà occultate è il presupposto indispensabile per far saltare il paraocchi che ancora oggi impedisce ai più di scorgere l’abisso verso il quale sono tuttora orientate quasi tutte le espressioni della nostra vita. Finalmente liberato il campo dai condizionamenti “anti-tutto” e dai pregiudizi verso le rare voci che nel corso del tempo hanno cercato, sempre invano, di indicare i luoghi del pensiero in cui erano state prefigurate tutte le tappe di questo lungo cammino di demolizione di tutte le basi della crescita individuale e di una convivenza collettiva impostata sulla ricerca dell’armonia, sarà finalmente possibile capire quanto, in realtà, sarebbe stato facile evitare le infinite e multiformi trappole mortali disseminate in ogni angolo e lungo tutte le strade percorse da almeno due o tre delle ultime generazioni.
Restando nel campo dell’arte e a mero titolo di esempio, basterà porre attenzione al significato letterale dei punti programmatici del manifesto “dada”. Nato a Zurigo negli anni dieci del Novecento, il dadaismo è la corrente di pensiero a cui, a pieno titolo, può essere ricondotta la pop art e il fenomeno Andy Warhol. Nulla può essere più chiaro delle parole d’ordine contenute in questo proclama la cui attuazione, come appare evidente, al di là della pretesa (in verità già di per sé insensata) di rifiutare la tradizione in tutti i campi, a partire da quello artistico, non avrebbe portato alla libertà di espressione bensì all’ospedale psichiatrico. Che in seguito e sicuramente non per caso è stato abolito. Recita il manifesto:
1) Per lanciare un manifesto bisogna volere A,B,C; scagliare invettive contro 1,2,3; eccitarsi e aguzzare le ali per conquistare e diffondere grandi e piccole a,b,c;
2) Firmare, gridare, bestemmiare, imprimere alla propria prosa l’accento dell’ovvietà assoluta, irrifiutabile, dimostrare il proprio non plus ultra, sostenendo che la novità somiglia alla vita tanto quanto l’ultima apparizione di una cocotte dimostri l’essenza di Dio;
3) Con il manifesto dada non si persegue nulla; chi scrive il manifesto è per principio contro i manifesti. E’ anche contro tutti i principi. Lo scopo è quello che si possono fare contemporaneamente azioni contraddittorie in un unico refrigerante respiro;
4) Si è in favore della contraddizione continua;
5) Dada non significa nulla;
6) Non si ritiene di dover dare spiegazioni.
Utile fermare l’attenzione sui primi due punti. Essi delineano chiaramente il modello di comportamento abituale con cui ancora oggi si tenta di ridurre al silenzio coloro che propongono una chiave di lettura diversa rispetto a quella corrente o offrono un pensiero finalmente rigenerativo. (Miriam Pastorino)

venerdì 19 febbraio 2010

L’ULTIMO MACELLAIO DI SOZIGLIA (segue)

Ma come è stato possibile che un prodotto ancor oggi ricercatissimo stia per scomparire dal mercato assieme ad un mestiere che dava di che vivere nell’abbondanza a un migliaio di famiglie? Questa non è una domanda retorica dettata dalla nostalgia ma il quesito molto pratico che dovrebbe costituire il punto di partenza di un pubblico amministratore intenzionato ad agire per il bene comune sul fronte diretto dell’occupazione e su quello accessorio, ma non trascurabile, della migliore vivibilità dei quartieri che acquistano in sicurezza e gradevolezza proprio grazie alla presenza delle luci e dei colori di tante vetrine dall’offerta differenziata e non banale.
Attingere all’esperienza quasi cinquantennale di Piero rappresenta il primo passo per immaginare un possibile percorso di recupero. Con il suo aiuto, cominciamo a richiamare alla memoria il modello virtuoso con cui veniva trasmesso un mestiere certamente difficile. La formazione, allora chiamata apprendistato, prevedeva due pomeriggi di lezioni teoriche nel corso delle quali si studiavano gli elementi di veterinaria utili alla professione assieme alle nozioni indispensabili per gestire un negozio. Ma era solo attraverso la pratica che ci si impossessava del mestiere: il giovane aspirante veniva messo “a bottega”, cioè a lavorare in una macelleria di sua scelta dove il titolare-maestro, mentre lo utilizzava, provvedeva ad istruirlo, seguendo passaggi logici dettati dall’esperienza: prima l’igiene e la scrupolosa pulizia con cui doveva essere tenuto il negozio, poi la lavorazione degli stalli meno pregiati con l’acquisizione della manualità necessaria a praticare l’“impelleggina”, cioè la pulizia completa dell’osso, dopo di che l’apprendista cominciava a stare dietro al banco dove veniva spronato a “rubare” il mestiere osservando le mani del maestro e dove imparava a distinguere gli stalli in rapporto all’uso culinario a cui erano destinati. Era in questo preciso punto che si combinavano due interessi in apparenza contrastanti: quello del macellaio provetto, costretto a perdere tempo prezioso per allevare un potenziale concorrente, e quello di un giovane disposto a svolgere lavori anche umili pur di impossessarsi d’un mestiere capace di assicuragli un sicuro futuro di benessere. La non conflittualità era assicurata dal buon senso, allora molto più diffuso di oggi, che comportava la generosa disposizione dell’adulto verso l’insegnamento (da cui traeva motivo di gratificazione personale) e dalla necessaria umiltà da parte dell’allievo di sottostare per tutto il tempo necessario alla disciplina imposta dal maestro. Anche lo Stato faceva la sua parte in questo delicato momento di formazione, provvedendo esso stesso a versare i contributi che oggi sarebbero invece a totale carico dei macellai, eventualmente disponibili ad assumere un apprendista.
Dalle parole di Piero emerge continuamente l’amore e la fierezza verso l’attività che svolge da così tanto tempo, assieme alla soddisfazione che prova ogni qual volta (in pratica, sempre) soddisfa i suoi clienti, i quali, a loro volta, lo ripagano con continue testimonianze di simpatia; ma, nello stesso tempo, egli è assolutamente scettico riguardo alla possibilità di poter dare una continuità al suo mestiere, poiché non vede nei politici locali né la volontà né la capacità di restaurare un apprendistato degno di tale nome e li ritiene più attenti agli interessi delle scuole di formazione, raramente capaci di fornire sbocchi di lavoro, che a quelli dei giovani in cerca di occupazione. Ed è ugualmente scettico anche nei confronti dei rappresentanti delle nuove generazioni: tanto restii nella volontà di conquistarsi la libertà che deriva da una vera indipendenza economica, quanto arroganti nel pretendere comodi inserimenti nel pubblico impiego, non importa se poco remunerativi e completamente parassitari.
Ma (forse), anche in questo caso fermare la deriva non è impossibile. Quando finisce per emergere la consapevolezza d’un pericolo incombente – come quello di non trovare tanto facilmente una possibilità d’impiego – anche i giovani, almeno quelli più avveduti, potranno riconquistare la disposizione d’animo necessaria per apprendere mestieri tutt’altro che facili, come quello del macellaio. Per favorire questo processo, si ritiene utile, per non dire indispensabile, ristabilire il valore e il prestigio sociale che un tempo aveva questa professione, così come quella di tanti altri artigiani e degli stessi commercianti al minuto. Prestigio che derivava dal generale riconoscimento che dovrà essere nuovamente attribuito a chi, assolvendo con fatica il compito di provvedere autonomamente a se stesso e alla propria famiglia, ricopre un ruolo di grande e prolungata visibilità e rappresenta, con il modo garbato di porsi e con la luce della sua vetrina, uno dei primi. e spesso molto attraenti, biglietti da visita di un popolo e di una città.
(Miriam Pastorino)

domenica 17 maggio 2009

Alessandro Massobrio

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Alessandro Massobrio, saggista e giornalista di origini piemontesi era nato nel 1950, sposò Laura ed ebbe tre figli. Insegnava italiano e latino nel Liceo classico e scientifico Martin Luther King, situato nel popolare quartiere di Sturla a Genova, vivendo l'insegnamento come una vera missione educativa, riuscendo a far amare i "classici" ai suoi giovani studenti. Appassionato di letteratura e di storia fu ricercatore e pubblicista collaborando con "Il cittadino", con le riviste "Studi Cattolici", "Il Timone", e "Area", con i quotidiani "Il Giornale", "Secolo d'Italia" e altre testate minori. Come saggista pubblicò numerosi lavori a sfondo storico e spirituale, ma anche volumi dedicati all'infanzia come Bambinaccius da Genova del 1994, La secchia della discordia del 2002, Don Chisciotte del 2005 e Gattocicova del 2006. Scrittore attento ai contenuti, ma anche all'eleganza della forma, dedicò le sue ultime fatiche alle vite dei Santi ed alla storia della Chiesa. Nel 1996 era stato anche collaboratore dell'opera collettanea Voci per un "Dizionario del pensiero forte", curata da Giovanni Cantoni, e di due edizioni nel 2004 e 2006 del Piccolo Manuale di apologetica, diretto da Rino Cammilleri. Era membro dell'Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova. Fu un appassionato ammiratore e studioso del notaio Ettore Vernazza del quale scrisse nel 2002 la biografia : Ettore Vernazza l’apostolo degli incurabili . Tra le numerose opere di saggistica che pubblicò ricordiamo la Storia della filosofia italiana del 1991; la Storia della Chiesa a Genova. Dalla fine della repubblica aristocratica ai giorni nostri del 1999 e una storia generale della Chiesa (Storia della Chiesa) del 1997 (ultima edizione del 2005). Ancora, le biografie Paolo di Tarso, del 2006, e Padre Bonaventura Raschi, il Cavaliere di Maria, del 2003. E' prematuramente scomparso il 22 maggio 2007, dopo una lunga e dolorosa malattia.
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Tutte le opere di Alessandro Massobrio.
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1988
L’ARTE DELLO SCRIVERE, Nuove edizioni del Giglio
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1991
STORIA DELLA FILOSOFIA CONTEMPORANEA “800-900”, Nuove edizioni del Giglio

1994
L’ARLECCHINO, Bertello Editore
BAMBINACCIUS DA GENOVA, Firenze Libri

1996
SCACCO IN TRE MOSSE, Convivio Filosofico Ediciones
JOSEPH BEDIER, IL ROMANZO DI TRISTANO E ISOTTA, Casa Editrice Edisco, Torino (traduzione)

1997
STORIA DELLA CHIESA, Newton&Compton Editori

1998
MITI E LEGGENDE DEL NORD, Casa Editrice Edisco, Torino
FASCI CON LE ALI, Colors edizioni

1999
STORIA DELLA CHIESA A GENOVA, De Ferrari Editore

2000
ROTTA SU ITACA, Casa Editrice Edisco Torino

2002
ETTORE VERNAZZA, L’APOSTOLO DEGLI INCURABILI, Città Nuova Editrice, Roma
STORIA DELLA CHIESA, Newton&Compton, Roma (2° edizione aggiornata)
LA SECCHIA DELLA DISCORDIA, Nuove Edizioni Romane, Roma

2003
PADRE BONAVENTURA RASCHI, De Ferrari Editore

2004
PICCOLO MANUALE DI APOLOGETICA,(collaborazione), Piemme, Casale Monferrato

2005
DON CHISCIOTTE, Edisco Editore, Torino
STORIA DELLA CHIESA, Newton & Compton , Roma (3° edizione aggiornata)
GILIANA, L’ASINELLA DI MARIA, Edizioni d’Arte Marconi, Genova

2006
GATTOCICOVA, Caroggio Editore, Genova
PICCOLO MANUALE DI APOLOGETICA (Collaborazione), Piemme, Casale Monferrato
PAOLO DI TARSO, Edizioni il Messaggero di Padova, Padova
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venerdì 10 aprile 2009

MIOU.MIOU.......................................................................................................................
Cagnola mia dolcissima, mia piccola Miou, sei sette chili di pelo lungo e nero d'amore e hai sette anni. Siamo ormai sole - lui non c'è più - e io che credo di proteggere te, e tu che in realtà proteggi me (tua indegna capobranco) mostrando craggiosamente i piccoli bianchi denti aguzzi da squalo. Il tuo esile corpo di volpino e le orecchie penzoloni da bracchetto ti conferiscono un'aria familiare. Hanno infatti preso in prestito la tua immagine per scrivere sulle vetrine dei negozi e dei ristoranti i "NOI NON POSSIAMO ENTRARE". E noi non entriamo. Aspettiamo di raggiungere lui. Ti toglierà il guinzaglio, mi prenderà per mano e vagheremo felici come tre nuovole rosa nel cielo blu di porcellana.